A.C. 1142-A ed abbinate
Presidente, io li ho visti, come altri colleghi, gli occhi smarriti di chi, malato, si trova davanti un foglio da leggere e poi da firmare: un foglio in cui in genere c’è scritto che puoi morire, anche se di allergia, o che si complicano le cose, e poi sono guai. Conosco lo sguardo vuoto di chi, alla restituzione della diagnosi, si ferma alle prime parole: abbiamo trovato un nodulo, non sappiamo ancora, dobbiamo vedere meglio, forse un cancro, operare, chemioterapia. Molti di quelli con cui successivamente si costruisce una relazione raccontano di aver sentito - sentito, non capito - solo le prime parole.
Questa legge guarda al paziente, al suo diritto di un percorso di cura, di comprendere cosa accade intorno e sul suo corpo, con quale obiettivo, con quali rischi, e, dopo aver compreso, scegliere di intraprendere, interrompere o rinunciare alla cura. Le firme sotto il modulo di consenso informato sono del paziente, che ha compreso ed è d’accordo, e del medico, che ha dato informazioni e non lo lascerà solo.
Non si scrive in una legge, ma quanto è complicato questo passaggio, quanta empatia ci vuole nell’operatore sanitario, quanta cura nella scelta delle parole, quanto coraggio a dire la verità e a raccogliere paura e dolore, quanto rispetto a fermarsi di fronte al rifiuto di un trattamento: non solo un trattamento qualsiasi, ma quello che cambierà la vita! Tutto questo è già nella formazione dei medici e degli infermieri o degli altri operatori sanitari: una formazione che deve però fare ancora un salto di qualità, dando maggiore ruolo alle cure palliative; non solo per il fine vita, ma per la visione di intero rispetto alla parte, di persona rispetto alla malattia.
Questo è il rischio di un sistema sanitario troppo spinto verso il concetto di azienda e di produttività e di una scienza medica iperspecialistica: perdere di vista l’intero, perdere di vista la persona; e nell’articolo 1 si ribadisce il principio che il tempo del colloquio è tempo di cura, e che, se la persona malata ha diritto a poter interrompere un trattamento, lo Stato ha il dovere del non abbandono.
Abbiamo messo nel testo principi che migliorano il sistema, con pazienti più consapevoli, con il tempo che consente una relazione più solida tra operatore e persona malata, il non abbandono, elemento di fiducia oltre che di assistenza.
La maggior parte delle più recenti sentenze ha più volte riconosciuto l’intangibilità del proprio corpo, il fatto che nessuno può essere sottoposto, contro la sua volontà, a un trattamento sanitario. È nella nostra Costituzione, ma bisogna arrivare alle sentenze e non tutti hanno energia e tempo residuo per farlo, coraggio di portare la propria malattia fuori dall’intimità della propria famiglia.
In questo testo non c’è niente di eutanasico, niente suicidio assistito, che sono pratiche vietate in Italia. Nel diritto della persona malata non c’è la possibilità di esigere dal medico una pratica contro la legge, né un trattamento che non sia scientificamente validato. L’aloe e il veleno dello scorpione, per esempio, seppure in voga sui network, non sono una terapia validata per il cancro.
È un’arte anche questa: spiegare a chi è disperato e si attacca a qualsiasi speranza quello che è possibile, quello che è probabile, quello che è impossibile, la differenza tra farmaco e pozione, tra scienza e credenza popolare.
E se il diritto di accettare, rifiutare, interrompere e rinunciare a una cura o a un trattamento sanitario è apparentemente ovvio, quando il paziente è in grado di comunicare e di relazionarsi, seppure con l’utilizzo di nuove tecnologie informatiche - mi riferisco a pazienti con SLA o altra patologia degenerativa -, attualmente è materia di giudici la stessa decisione in una persona non più in grado di esprimere il suo consenso.
Le DAT servono a questo, a dire i propri orientamenti e i propri desideri rispetto alla cura, rispetto al proprio fine vita; affermarli ora per allora, con la forza di un documento, non un foglietto volante. Un documento vincolante e volontario, modificabile nel tempo, un documento a cui la presenza obbligatoria del fiduciario toglie quel carattere di pietra tombale descritto di recente in qualche articolo per dare corpo a paure o a false idee di pericolose derive. Il fiduciario, infatti, è la persona con cui interfacciarsi per il rispetto delle DAT o per le poche eccezioni alla vincolatività delle stesse, in particolare di fronte a progressi medici o in situazioni non previste o non prevedibili alla disposizione anticipata.
Cito un lavoro del 2003 del Comitato bioetico nazionale: si applica quando chi le ha descritte, maggiorenne e in grado di intendere e di volere, è privato delle facoltà cognitive e della stessa coscienza, trovandosi così a dipendere interamente dalla volontà di altri. Le DAT tendono a favorire una socializzazione dei momenti più drammatici dell’esistenza e ad evitare che il malato, per l’eventuale incapacità, non venga più considerata una persona con la quale concordare il programma terapeutico ottimale, ma soltanto un corpo da sottoporre ad anonimo trattamento.
A tal fine è opportuno fornire a medici, al personale sanitario e ai familiari elementi conoscitivi che li aiutino a prendere decisioni che siano compatibili con la volontà e le preferenze della persona da curare. Un testo di “diritto mite”, secondo il linguaggio della legge, un testo delicato, come lo descriverei da medico, con l’attenzione all’equilibrio tra il diritto alla salute e quello dell’intangibilità del corpo, tra il dovere di curare e il diritto al rifiuto, tra l’obbligo di informare e il diritto a non voler sapere. La tutela del paziente e della sua volontà, anche in quella espressa ora per allora con le DAT, negli articoli 1 e 3, e la tutela degli incapaci inabili e minori ben dettagliata nell’articolo 2, col rispetto delle volontà possibili, informando dove si può, ribadendo che ogni scelta deve avere la finalità della salute della persona, perché abbiamo a cuore i fragili.
I bambini, i minori, vengono coinvolti nel percorso della loro malattia. Nelle audizioni abbiamo ascoltato come il dire ai minori quello che deve accadere, anche ai bambini, consenta un più sereno approccio ai trattamenti e anche a una più positiva reazione psicologica personale e familiare alle procedure e al decorso di malattia.
Si può già scegliere di rinunciare o di sospendere una terapia antibiotica, si sceglie di sospendere la chemioterapia, si sceglie di non andare più a dializzare, si firma contro il parere dei sanitari per lasciare l’ospedale, anche in condizioni critiche, e già così senza scalpore: si chiarisce oggi che si può fare per tutti i trattamenti sanitari, anche per l’idratazione e la nutrizione artificiale.
L’idratazione artificiale e la nutrizione artificiale sono atti sanitari, e l’idratazione, in particolare, non è solo la flebina di accompagnamento al farmaco, non il bicchiere d’acqua amorevolmente somministrato col cucchiaino o con la pezza bagnata, ma un farmaco con calcolo del fabbisogno idroelettrolitico con via d’accesso frequentemente invasiva, con catetere venoso centrale; e la nutrizione artificiale è con accessi chirurgici, come la PEG, che in linguaggio familiare è un buco nello stomaco; è la somministrazione di nutrienti attraverso un sondino o un sondino nasogastrico o le sacche per la nutrizione parenterale totale attraverso un accesso venoso centrale. Sono atti sanitari che necessitano di operatori esperti, atti che richiedono il consenso informato e per cui si ribadisce il diritto da parte del paziente alla sospensione o alla rinuncia del trattamento, così come è necessaria la volontà di sottoporcisi.
La legge n. 38 del 2010 e le cure palliative e la terapia del dolore hanno già cambiato l’assistenza, ma con una presenza non omogenea nel Paese. Il concetto del dolore inutile, con buona percentuale affrontato nella patologia oncologica, come documenta un recente lavoro di Cittadinanza attiva, rappresenta ancora uno scoglio però nel campo delle malattie croniche. Più diffusione delle cure palliative, dunque, perché il superamento del dolore, il trattamento del sintomo, la presenza di un’équipe preparata è cura per il paziente e sollievo per la famiglia, accompagna nel dolore globale del morente.
Tra le manovre palliative, elemento di discussione mediatica è la sedazione palliativa profonda, una procedura medica ben descritta nelle linee guida internazionali per la medicina palliativa, nelle raccomandazioni della società italiana di cure palliative, nei documenti del Comitato bioetico nazionale. La definizione è la stessa recentemente richiamata nell’aggiornamento del manuale degli operatori sanitari cattolici: la sedazione palliativa profonda e continua è una riduzione progressiva dello stato di coscienza, sedazione appunto con un farmaco sedativo, in genere oppioide, di fronte ad un sintomo refrattario ad ogni trattamento. Si fa previo consenso del paziente. Sedazione: i termini, in questo campo, devono essere corretti. Si chiama sedazione per l’obiettivo del trattamento e il tipo di farmaco usato.
Dunque, una legge che rispetta il paziente e le sue scelte. Abbiamo scelto l’equilibrio e il malato, perché, in molti casi, un corpo prigioniero di macchine, aghi, drenaggi, cateteri, sondini, farmaci, infermieri, medici e dolore, può volere, essendo consapevole, e può desiderare che il tempo della morte arrivi dignitosamente.